20 Maggio 2005

Secondo workshop - Tutela internazionale delle indicazioni geografiche e nuovi modelli di sviluppo

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Coordina Roberto Iotti, giornalista de "Il Sole 24 Ore"

Roberto IOTTI
Speriamo che il vostro livello di attenzione resti alto come nella prima parte anche perché questa seconda parte è estremamente interessante, non solo perché abbiamo una nutrita rappresentanza estera e quindi possiamo direttamente sapere da loro cosa pensano della tutela internazionale per i prodotti a denominazione di origine ma, anche perchè possiamo fare un approfondimento su quello che sta succedendo, su questo tema, a livello internazionale e soprattutto in sede WTO.
Se mi permettete vorrei prendere spunto da quello che è emerso dalla Tavola rotonda precedente dove ho sentito ricorrere molto spesso la parola "ritardo". Voi sapete come è la situazione attuale, l'Italia – così come i Paesi maggiormente interessati in Europa - ha ormai perso la battaglia del tessile, abbiamo definitivamente perso la battaglia dell'industria automobilistica; che fine farà l'agro-alimentare? Ho sentito parlare di concorrenza sleale da parte dei Paesi dell'Asia, dei Paesi emergenti dell'Europa dell'est o della Turchia, allora mi chiedo e chiedo a voi, concorrenza sleale può essere un prodotto imitato, certamente un renoming di un prodotto tutelato da un marchio IGP o DOP può essere concorrenza sleale, ma, quale è la concorrenza sleale che c'è dentro una di quelle scatole di pomodori o di frutta allo sciroppo che vediamo in fondo alla sala?
Che cosa hanno di particolare questi prodotti, perché noi li temiamo? Ve lo siete chiesto? Perché ci fanno così paura questi prodotti? Il pomodoro che viene dallo <a href="http://search.virgilio.it/search/cgi/search.cgi?f=hp&switch=0&offset=0&hits=10&qs=shenzen&x=36&y=11#">Shenzhen</a> viene lavorato dalle macchine della Rossi Capelli, che è una industria italiana, i cui ingegneri fanno corsi di qualità totale ai loro ingegneri e fanno la stessa conserva di pomodoro che facciamo noi; allora, dov'è il problema? Il problema è uno solo, è che là hanno dei costi diversi dai nostri, hanno dei sistemi di produzione che sono totalmente diversi dai nostri.
Allora la nostra deve essere una battaglia di retroguardia, cioè dobbiamo tirare su un muro? La Commissione Barroso ha impiegato quasi sei mesi per aprire una procedura di salvaguardia per 2 prodotti, il t-shirt e il filato di lino, su una griglia di 9, quando ce ne sono altri 7 che stanno aspettando; allora, presidente Politi, vogliamo fare una battaglia di retroguardia o serve qualcosa di più?

Giuseppe Politi - Presidente nazionale Cia
Chi segue quello che la Confederazione italiana agricoltori dice e porta avanti da tempo, rispetto a questo problema, sa sicuramente che la nostra non è una battaglia che guarda indietro, noi ci rendiamo conto che non possiamo sfuggire i problemi del mercato e della globalizzazione e che con la internazionalizzazione dei mercati dobbiamo fare i conti. Aggiungo che i nostri agricoltori hanno vinto già una sfida, agli agricoltori veniva chiesto di produrre di più, di risolvere il problema alimentare del Paese e lo hanno fatto, lo hanno fatto bene, hanno saputo difendere anche il territorio, hanno prodotto queste meraviglie che noi oggi presentiamo, le 150 Dop e Igp, e quindi non vogliamo sottrarci alle nuove sfide, sappiamo che dobbiamo con queste fare i conti. Possiamo però vincerle perché abbiamo dimostrato di avere la capacità, ed anche gli investimenti da immettere nel settore anche se con tanti sacrifici; possiamo vincerle però se ci saranno delle regole uguali per tutti. Noi non abbiamo nulla da dire per ciò che riguarda, per esempio, le barriere doganali, ma certamente abbiamo tanto da dire per quelle che sono le regole: noi vorremmo che i prodotti che entrano in Italia abbiano gli stessi adempimenti e le stesse regole che gli europei e gli italiani nello specifico devono sopportare per immettere i loro prodotti sul mercato interno e sul mercato internazionale.
Dall'altra, vogliamo che vengano perseguite tutte quelle azioni di immissione di prodotti sul mercato che nulla hanno a che vedere con la concorrenza, ma che rappresentano invece delle vere e proprie truffe perché viene ingannato il consumatore.

R.I.
Grazie presidente. Dott. Longo, quale è attualmente la situazione a livello internazionale e quale è il focus che l'Europa e l'Italia stanno cercando di mettere a punto nella strategia di reciproco riconoscimento e di difesa delle produzioni a denominazione di origine?

Aldo LONGO - Capo unità relazioni bilaterali Commissione UE
In termini di obiettivi, l'azione che noi intendiamo sviluppare a favore delle indicazioni geografiche essenzialmente è orientata all'obbiettivo di internazionalizzare il sistema nel senso di condividerlo con altri Paesi terzi. Questo è al momento l'obiettivo generale della nostra azione che si situa rispetto a tre interrogativi strategici: perché farlo? chi sono i partner da privilegiare nella nostra azione ? ed infine secondo quali modalità perseguire questo obiettivo ?
Rispondere al primo di questi interrogativi "perché farlo" è semplice con due argomentazioni. In primo luogo le esigenze di protezione dalle usurpazioni che abbiamo sui mercati dei Paesi terzi e in secondo luogo, come ho detto, il fatto di poter internazionalizzare il nostro sistema, che significa essenzialmente portare altri Paesi terzi a condividere la stessa esperienza, quella dello sviluppo di una politica di qualità attraverso le indicazioni geografiche, e lo stesso interesse economico per tale sistema.
Tutto ció si inserisce in un obbiettivo più operativo di sviluppare con i nostri partners una azione di protezione condivisa sul sistema delle indicazioni geografiche. L'intenzione è quindi si offrire, come in una certa misura è già avvenuto e come avviene progressivamente, un riconoscimento internazionale al nostro sistema di protezione e più in particolare un riconoscimento di sistema che va anche oltre una dimensione puramente commerciale del problema. Si tratta in definitiva di affermare l'identità e la specificità delle nostre produzioni.
Chi sono i Paesi terzi con i quali possiamo lavorare ? In primo luogo sono certamente quei Paesi che hanno già sviluppato o che sono interessati a sviluppare un sistema di indicazioni geografiche in qualche modo simile al nostro e quindi sono disposti a condividere pienamente il principio delle indicazioni geografiche. Con questi Paesi cerchiamo di sviluppare un dialogo costante, un dialogo che mira ad un'azione di informazione in primo luogo ma successivamente a costruire qualcosa insieme attraverso dei possibili accordi bilaterali.
Abbiamo una lunga lista di questi Paesi, il più vicino a noi è, in questo momento, certamente la Svizzera, ma ci sono Paesi come la Thailandia che dallo scorso anno hanno sviluppato un sistema legislativo comparabile al nostro; c'è la Cina che per le indicazioni geografiche è certamente il Paese più rappresentativo perché ha circa 300 indicazioni geografiche già riconosciute ed altri paesi che manifestano interesse.
Per quanto attiene alle modalità, la nostra azione si sviluppa a diversi livelli. Il livello multilaterale è quello del negoziato internazionale nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio. Esso è aperto su due fronti: una prima azione è quella relativa al negoziato dell'accordo Trips sulla proprietà intellettuale dove la posizione comunitaria è quella da una lato di rivendicare la creazione di un registro multilaterale che copra tutte le indicazioni geografiche a dall'altro di spingere per un rafforzamento della protezione delle indicazioni geografiche nei termini già in vigore per il vino.
Esiste un secondo aspetto che è quello del negoziato agricolo in seno alla OMC e l'Unione europea, come tutti sanno, ha una proposta di "lista ristretta" di 41 prodotti, che include i prodotti più esposti alle usurpazioni. I due approcci sono complementari perché il primo è proiettato a garantire prevalentemente il futuro (la proposta della riforma Trips), il secondo si prefigge di porre fine alle usurpazioni correnti e pregresse.
Vorrei ricordare un caso particolare di un altro modo di operare che è più recente ed è di estremo interesse, visto anche che nella tavola rotonda precedente si è molto parlato di olio di oliva. Vorrei segnalare che è stato rinnovato ultimamente a Ginevra l'accordo sull'olio d'oliva e sulle olive da tavola. Bene, in questo accordo, con gli altri membri del Consiglio oleicolo internazionale, abbiamo deciso di introdurre una disposizione che avvia un nuovo "modus operandi" per la protezione delle indicazioni geografiche. In concreto siamo riusciti ad ottenere l'accordo su un articolo che, per la prima volta nell'ambito di una Organizzazione multiparte, il Consiglio oleicolo internazionale, provvede a promuovere le indicazioni geografiche e ne assicura la protezione condivisa dai Paesi produttori. Questo è un approccio nuovo e originale che avvia una dimensione multiparte per la integrazione del sistema delle indicazioni geografiche. Una strada sulla quale continuare.

R.I.
Lei su questa strada vede qualche spiraglio positivo? Anche perché dall'avvio dei negoziati di Doha ad oggi non mi pare che di passi ne siano stati fatti tanti. Ed inoltre, quali sono i Paesi che stanno frenando di più, che stanno facendo una forte opposizione?

Aldo Longo
È vero che fino ad oggi la discussione a livello multilaterale è stata piuttosto limitata senza evoluzioni sostanzialmente positive, ma posso ribadire senza esitazioni, questo lo vorrei sottolineare, l'estrema determinazione dei nostri negoziatori a continuare nella direzione della difesa della nostra posizione tanto a livello dell'accordo Trips che a livello del negoziato agricolo.
Per quanto riguarda la seconda domanda, certamente i Paesi che si oppongono di più sono quelli che preferiscono altri sistemi di protezione fondati sul diritto della marca piuttosto che quello delle indicazioni geografiche. Sono gli Stati Uniti d'America, l'Australia ed altri che manifestano uno scarso interesse, per il momento, ma che speriamo di riuscire a convincere ben presto della validità del nostro discorso.

R.I.
Sentiamo allora direttamente dai rappresentanti australiani: signora Berfil e signor Mackenzie qual è la vostra posizione in merito al negoziato sul riconoscimento e sulla protezione dei prodotti ad indicazione geografica, che si va anche ad innestare sul problema della proprietà intellettuale, come ha appena ricordato Longo?

Angus McKenzie
Judy Berfield
La tavola rotonda di oggi si incentra sul sistema internazionale per la protezione delle indicazioni geografiche e sulle attuali discussioni all'interno dell'OMC su tale questione. Siamo grati per l'opportunità concessa all'Australia di esporre la propria posizione.
Esistono tre fondamentali argomenti di dibattito tra i membri dell'OMC a proposito delle indicazioni geografiche. In primo luogo si considera l'estensione ad un livello più alto di protezione delle indicazioni geografiche per altri prodotti che non siano vini ed alcolici. Secondo, esiste una richiesta da parte dell'UE all'interno delle negoziazioni agricole per ottenere i diritti esclusivi dei 41 termini di quella che noi chiamiamo la lista "clawback". Terzo, sono in atto delle negoziazioni per un registro di vini ed alcolici. I primi due punti, l'estensione ed il "clawback", sono i più rilevanti in questo foro.
Estensione:
Attualmente TRIPs assegna un alto livello di protezione a vini e alcolici con indicazioni geografiche, rispetto ad altri prodotti. L'Unione Europea, la Svizzera ed un ristretto gruppo di paesi in via di sviluppo stanno tentando di negoziare per emendare l'articolo 23 dell'Accordo TRIPs per estendere a tutti i prodotti il livello di protezione attualmente assegnata a vini e alcolici, compresi i prodotti agricoli, i cibi lavorati ed i manufatti. L'Australia si oppone all'estensione di tale livello di protezione.
Ci opponiamo a tale estensione in quanto non necessaria, costosa, discriminatoria e impone un carico iniquo sui paesi non europei, in particolare sui paesi in via di sviluppo.
Non la riteniamo necessaria in quanto TRIPs già obbliga i membri dell'OMC a fornire i mezzi legali per proteggere le indicazioni geografiche e non sono state fornite prove concrete per dimostrare che tale protezione sia inadeguata. Esistono metodi comprovati di protezione di prodotti con indicazioni geografiche quali i marchi certificati, la protezione di marchi noti e le leggi primarie per la protezione del consumatore.
Sarebbe oneroso per i governi implementare nuove regole, sarebbe costoso per l'industria cambiare le etichette e le pratiche di marketing dopo aver speso molto per stabilire i loro brand, è costoso per i consumatori che devono sopportare il carico dell'estensione sotto forma di un aumento dei prezzi.
Imporrebbe un carico iniquo sui paesi non europei, ai quali verrebbe richiesto di proteggere quasi 700 indicazioni geografiche registrate in Europa avendone di proprie, in cambio, solamente una o due protette. Ciò graverebbe sui paesi in via di sviluppo che non hanno la capacità legale o amministrativa per fornire un più alto livello di protezione a molti prodotti con indicazioni geografiche.
Inoltre crediamo che sia prematuro per la comunità internazionale considerare la proposta dell'UE per l'estensione fino a quando non verranno risolte questioni derivanti dalle esistenti regole dell'OMC. Per fare un esempio, non crediamo che l'UE abbia implementato gli esistenti obblighi TRIPs sulle indicazioni geografiche e sui marchi, e l'OMC è concorde. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo sfidato la legislazione dell'UE per la protezione delle indicazioni geografiche attraverso il sistema dell'OMC per la risoluzione delle controversie. Il gruppo dell'OMC ha confermato il nostro punto di vista secondo cui l'UE ha infranto uno dei principi fondamentali dell'OMC, il principio del trattamento nazionale.
Clawback:
Le obiezioni alla proposta per l'estensione si riferiscono anche alla richiesta dell'UE di "clawback" relativo all'utilizzo di 41 nomi di prodotti ad uso esclusivo di produttori europei. Non vediamo perché gli agricoltori e i consumatori australiani dovrebbero essere costretti a rinunciare a termini quali parmigiano, feta e mozzarella che sono diventati termini generici all'interno dei mercati mondiali e che loro hanno utilizzato per intere generazioni.
Per l'Australia, dato il nostro passato coloniale e di immigrazione, molti dei nomi che usiamo per identificare i nostri prodotti quali gouda, feta e formaggio cheddar derivavano da nomi originari europei. Chi si è stabilito in Australia e gli immigranti hanno portato con loro i loro i metodi ed i nomi tradizionali.

Con il loro lavoro hanno contribuito a stabilire la notorietà e la qualità di tali prodotti in Australia e altrove. La fama mondiale del formaggio cheddar o del parmigiano non dipende esclusivamente dagli sforzi promozionali degli abitanti del paese di Cheddar o delle città di Parma e Reggio. Gli emigranti provenienti dall'Inghilterra e dall'Italia che vivono in Australia e in tutto il mondo hanno partecipato anche loro ad un tale sviluppo. Noi temiamo che sarebbe un atto di discriminazione e un errore permettere a certe regioni europee di ottenere la proprietà totale di tali marchi, e questo parere è condiviso da tanti italiani che vivono in Australia.
Rifiutiamo categoricamente qualsiasi ipotesi che tutto ciò sia pari al sostenere l'agropirateria. I produttori australiani non fingono che i loro prodotti vengono dall'Italia o dalla Grecia, i regolamenti TRIPs (Art. 22) lo impediscono e tale pratica è contraria alla legge australiana. Le etichette dei nostri prodotti chiamati "parmesan" dichiarano in modo esplicito e con orgoglio che sono prodotti "made in Australia", vengono venduti accanto al Parmigiano-Reggiano e il Parmigiano-Reggiano è protetto in Australia come marchio certificato, solo alcuni produttori italiani possono usufruire di tale denominazione. I consumatori australiani riconoscono la differenza e non vengono ingannati.
Le proposte dell'UE relative al "clawback" fanno sorgere tante domande alle quali fino ad oggi non ci sono state fornite risposte.
La richiesta attuale è per la protezione assoluta ed esclusiva di un elenco di 41 specifiche indicazioni geografiche che includono vini, liquori, formaggi e carni. Cosa si intende per "assoluta" ed "esclusiva"?
Siamo preoccupati che in futuro altri termini generici, come ad esempio 'gouda', 'cheddar' e 'edam' verrebbero inclusi in eventuali elenchi, di cui Feta già fa parte. Queste 41 indicazioni geografiche rappresentano la fine delle richieste dell'UE o solo l'inizio?
Siamo preoccupati che questa proposta negherebbe agli altri la possibilità di usare termini ben conosciuti e di utilizzo quotidiano per descrivere prodotti attualmente realizzati in Australia. In quale modo verebbero ricompensati i nostri produttori?
La proposta dell'UE significherebbe, in effetti, riscrivere gli articoli 22, 23 e 24 di TRIPs abolendo la possibilità per i paesi di utilizzare marchi noti e termini generici. In quale modo verrebbero ricompensati i proprietari dei marchi?
Inoltre, abbiamo seguito il funzionamento del sistema delle indicazioni geografiche in Europa e sono sorti forti dubbi. Attualmente alcuni dei termini nell'elenco di "clawback" sono sottoposti a processi giudiziari. C'è un procedimento in corso davanti alla Corte Europea di Giustizia relativo all'utilizzo del nome "feta". La stessa Corte ha solo recentemente emanato una sentenza a favore dell'Ungheria, confermando il divieto ai produttori italiani di utilizzare il nome "Tocai". Tuttavia anche i produttori cechi hanno preteso il diritto di usare tale termine. Questi esempi ci fanno pensare che il sistema europeo ha ancora delle problematiche da risolvere. Non siamo convinti che sia un sistema necessario, o che meriti di essere introdotto a livello multilaterale.
Negoziati all'interno dell'OMC:
L'Australia ha sempre sostenuto che non c'è, e non c'è mai stato, nessun mandato per la negoziazione delle indicazioni geografiche come parte degli elementi agricoli nelle negoziazioni di Doha. Le indicazioni geografiche non fanno parte della politica agricola e non dovrebbero essere trattate all'interno del mandato agricolo. Al contrario, fanno parte della politica relativa alla proprietà intellettuale e dovrebbero essere trattate dal Consiglio TRIPS. Non devono essere utilizzate per riscattare le altre negoziazioni per cui esiste un mandato.
L'Australia comprende il desiderio di assicurare una vera protezione alle indicazioni geografiche. Come per la richiesta d'estensione, siamo disposti a continuare il dialogo su come migliorare la protezione delle indicazioni geografiche a livello mondiale, che interessa tutti, tuttavia tale protezione non deve creare inutili ostacoli al commercio. Inoltre, non dobbiamo permettere che questo discorso distragga l'attenzione della comunità internazionale dalla realizzazione degli obiettivi di una riforma ambiziosa del commercio, come concordato a Doha.

R.I.
La ringrazio e completiamo questo giro di testimonianze internazionali con il contributo di Margareth Mohapi. Signora Mohapi, il Sud Africa non si è ancora espresso, non sta né da una parte né dall'altra, ma sta diventando però una potenza agro-industriale non indifferente.

Margaret Mohapi – Addetto agricolo dell'ambasciata del Sudafrica
Grazie Coordinatore,
L'intervento del Sudafrica non sarà focalizzato sull'andamento e sul luogo dove si stanno svolgendo le discussioni sulle Indicazioni Geografiche nell'ambito del Programma di Sviluppo di Doha nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, ma evidenzierà le discussioni cruciali sul Registro e l'ampliamento delle Indicazioni Geografiche.
A proposito del Registro nell'ambito del sistema multilaterale per la notifica e la registrazione di Indicazioni Geografiche per vini ed alcolici come previsto dall'Articolo 23.4 dell'Accordo TRIP ed avendo notato l'approccio verso le implicazioni legali del Registro delle Indicazioni Geografiche, compresi i costi di applicazione per i Membri dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, come discusso sotto gli auspici della WIPO (Organizzazione Mondiale per i Diritti della Proprietà Intellettuale), il Sudafrica non può sostenere questo approccio. L'approccio alternativo di conservare i dati delle Indicazioni Geografiche, che le autorità locali possono consultare ogni qualvolta devono rilasciare un marchio e qualsiasi altra forma di protezione o certificazione delle Indicazioni Geografiche dei Membri dell'OMC attualmente protette, è sostenuto dal Sudafrica in quanto quest'ultimo è un paese che vanta un uso storico di specifiche indicazioni geografiche attualmente protette ed elencate di seguito. Questo eviterà futuri conflitti sui marchi.

Il Sudafrica usa marchi commerciali per proteggere vini ed alcolici; comunque la protezione dell'Indicazione Geografica è parte dell'iniziativa mirata a proteggere la conoscenza tradizionale. Il Sudafrica non sostiene l'ampliamento delle Indicazioni Geografiche come attualmente proposto nell'ambito dei negoziati dell'OMC con la Comunità Europea. Il disaccordo del Sudafrica sull'ampliamento della lista delle IG è collegato all'adesione di nuovi paesi all'Unione Europea. Molte IG dei nuovi paesi sono simili a quelle già presenti nella lista delle IG attualmente protette in Sudafrica per quanto riguarda vini e alcolici, vale a dire "Devon" per "Devon Valley", "Worcestershire" per "Worcester" e "Somerset" per "Somerset West" nota zona di viticoltura in Sudafrica.

E' evidente che l'allargamento dell'Unione Europea finirà col favorire i paesi del Nord piuttosto che quelli in via di sviluppo. I nuovi Membri dell'Unione Europea hanno già dei nomi di IG attualmente protetti dai paesi del Sud. Tali nomi saranno ovviamente aggiunti alla già lunga lista dell'UE. Perciò l'ampliamento della lista dell'UE nell'ambito dei negoziati con l'OMC potrebbe causare la monopolizzazione da parte della Commissione Europea del segmento alto del mercato con la conseguente limitazione di possibilità, per i paesi in via di sviluppo, di guadagnare fette di mercato. Questo equivale ad un'altra forma di protezione imposta dall'UE contro i paesi in via di sviluppo sui prodotti agricoli lavorati provenienti da Paesi del Sud.
La proposta dell'UE di ampliare il registro non tiene conto delle leggi nazionali dei paesi in via di sviluppo e sposta l'obbligo di protezione dai produttori ai Membri con il risultato di costi aggiuntivi per i paesi in via di sviluppo.

R.I.
Credo siano gli stessi problemi che hanno posto gli amici australiani, quindi io girerei la domanda anche alla consigliere legale di OrIGin, Ester Olivas. Allora, l'Australia ha un sistema di protezione che sembra essere molto più semplice rispetto a quello europeo, mentre il Sudafrica ha sviluppato un sistema di protezione e di denominazione su due prodotti molto sensibili per noi come sono il vino e gli alcoolici e credo lo stiano studiando anche per prodotti dell'ortofrutta. Sono quindi due sistemi di riconoscimento e di protezione che vanno a scontrarsi con il sistema europeo e sottolineano, sia l'Australia che il Sudafrica, come l'inserimento di ulteriore protezione sui prodotti importati, in genere dall'Europa, implichino un aumento dei costi e quindi anche una minore protezione nei confronti dei loro produttori.

Ester OLIVAS – Consigliere legale OriGIn
Pensavo di introdurre OriGIn più in dettaglio, ma al fine di poter rispondere a tutte le questioni che si sono messe sul tavolo dagli speakers precedenti, cercherò di essere breve e dire due parole a riguardo di coloro che sono rappresentati dalla nostra rete internazionale, ovvero i produttori di indicazioni geografiche di tutto il mondo e non soltanto dell'Ue. Tra i nostri membri ci sono il riso Basmati della India, la seta tailandese, il te dal Kenya, gli Habanos da Cuba, il caffè Antigua dal Guatemala, insieme a prodotti europei come il Prosciutto di Parma, Parmigiano Reggiano, i formaggi francesi, il Turrón Jijona e di Alicante in Spagna, ecc.
OriGIn ha come obiettivo la promozione delle indicazioni geografiche come strumento di sviluppo e come mezzo per proteggere il valore prodotto dalle comunità locali. Inoltre, il secondo obbietivo di OriGIn è promuovere la protezione delle indicazioni geografiche a livello nazionale, regionale ed anche internazionale. Ho lasciato in segreteria una brochure dove spieghiamo cosa è OriGIn, e le attività che sviluppiamo nella nostra organizzazione.
Tornando ai punti che sono stati sollevati questa mattina, cercheró di parlare degli aspetti trattati dai nostri colleghi australiani e del Sud Africa: la "claw back list", il panel, il registro multilaterale dei vini e degli alcolici e l'estensione. Prima di tutto, rispondendo alla domanda posta dal nostro coordinatore sui costi del sistema europeo di protezione delle indicazioni geografiche, vorrei dire che forse non si conosce bene il sistema europeo del registro delle indicazioni geografiche, perché contrariamente all'idea che alcuni hanno sul fatto di essere costoso, il sistema europeo non costa niente, il registro delle IG é gratuito. All'inverso, il sistema di registrazione dei marchi invece è molto costoso perché per registrare un marchio costa più di 2 mila €, ed inoltre a volte alcuni marchi devono essere registrati in vari tipi.
Un altro punto di cui si è parlato è quello dell'accordo "Trips". Si dice che questo accordo offra una adeguata protezione delle indicazioni geografiche nell'art. 23. Effettivamente, l'art.23 offre una protezione, ma soltanto per i vini e gli alcolici perché all'epoca fu fatto il negoziato solo per tali prodotti, che sono stati i primi a nascere come indicazioni geografiche, mentre gli altri prodotti pur esistendo già, non erano ancora riconosciuti.
Quello che OriGIn ha messo in rilievo davanti all'Unione Europea, con cui cerchiamo di essere sempre chiari e a cui cerchiamo di presentare sempre il nostro punto di vista, è che non si può consentire un trattamento discriminatorio contro le indicazioni geografiche che non siano vini ed alcolici. Cosí, la protezione dell'art. 23 dovrebbe essere estesa a tutti i prodotti, per giungere ad una migliore protezione per queste indicazioni geografiche. Questa estensione della protezione dell'art. 23 a tutti i prodotti oltre ai vini e gli alcolici è, senza dubbio, molto importante per i Paesi dell'Africa, che hanno tante indicazioni geografiche che non sono, di fatto, vini ed alcolici. Tali sono i casi di IG membri di OriGin come il té eppure il caffè da Kenia, il burro da Burkina Faso, ecc. ma anche tanti altri. OriGIn considera che per avere una migliore protezione delle indicazioni geografiche c'è bisogno dell'estensione della protezione per i vini ed alcolici a tutti i prodotti IG.
Inoltre noi svolgiamo pure un ruolo di assistenza tecnica verso i Paesi in via di sviluppo per scambiare esperienze, con esperti per portare loro delle conoscenze e per insegnargli come proteggersi, anzi, fargli conoscere come a livello pubblico, le autorità possono creare un sistema legale per proteggere le indicazioni geografiche, come per esempio, quello dell'Ue.
Noi abbiamo come uno dei nostri obbietivi aiutare i Paesi in via di sviluppo a promuovere e proteggere le loro IG, ed in questo senso, pensiamo che l'estensione dovrebbe essere una priorità per tutti, non soltanto per i Paesi in via di sviluppo, ma anche per l'Ue e a tutti gli altri Paesi dove esistono delle indicazioni geoografiche. Ad esempio, OriGIn ha partecipato alla preparazione di un seminario che c'è stato a S.Louis, negli Stati Uniti, dal 16 al 18 maggio, intitolata "indicazione geografiche e sviluppo sostenibile rurale". A questo incontro, hanno partecipato tanti produttori americani che cominciano a chiedere una protezione per i loro prodotti. In tal senso accetto l'idea del nostro amico Aldo Longo che diceva "cerchiamo di convincerli". Forse le autorità non saranno le prime a convincersi ma sicuramente i produttori arriveranno ad un punto in cui esigeranno la protezione per i loro prodotti e quella sarà la chiave per lavorare.
Si è parlato anche del panel contro il sistema europeo di protezione delle IG. OriGIn è molto soddisfatta del risultato del panel, che ha confermato il sistema europeo di protezione delle indicazioni geografiche conforme alle norme dell'accordo Trips. Anzi insisto nel dire che per il panel, il sistema europeo di protezione delle indicazioni geografiche funziona e deve essere aperto ai Paesi terzi. Così, il sistema europeo di cui parlava la nostra collega in rappresentanza del sud Africa, non protegge soltanto gli interessi delle IG europee perché l'Ue in questo momento sta cercando di modificare il regolamento affinché i Paesi terzi possano registrare le loro indicazioni geografiche in Europa. Allora, la Comunità europea è aperta a questi Paesi terzi affinché siano liberi di registrarsi nell'Ue.
Un altro punto di cui si è parlato questa mattina è quello della "claw back list". Noi abbiamo membri i cui prodotti sono inclusi nella "claw back list" e ne abbiamo altri che non vi sono compresi. Ma tutti sono pronti a considerare questo elenco come uno strumento importante per i negoziati internazionali. I membri di OriGIn appoggiano la proposta della Svizzera, per cui qualsiasi progresso nel negoziato agricolo dovrà necessariamente avere un rafforzamento nella protezione delle indicazioni geografiche. Pensiamo quindi che la "claw back list" sia uno strumento dell'Ue molto importante per questi negoziati.
Infine non dobbiamo dimenticare che le indicazioni geografiche sono un mezzo di accesso al mercato per tutti quelli che li producono, anzi, i Paesi in via di sviluppo possono accedere al mercato ma, se non hanno una protezione guarantita in favore dei loro prodotti di qualità, non ha senso avere la possibilità di accedere al mercato, perché rischierebbero di subire degli abusi.
Nessuno dovrebbe avere il diritto di abusare nella reputazione delle IG, dello loro tradizioni, savoir-faire, ecc., mentre purtroppo questi abusi sono costanti. In questo senso, posso segnalare diversi esempi di abusi. Noi abbiamo scoperto prosciutto di Parma, prodotto in Canadà, o quello prodotto negli Stati Uniti, il caffè Antigua prodotto fuori dal Guatemala o l'olio del Marocco prodotto fuori da quel Paese. Noi siamo molto attivi contro questi abusi e lavoriamo in stretto contatto con l'Ue ma anche con altre organizzazioni internazionali come il WTO o l'OMPI. Noi pensiamo che l'Unione Europea debba prendere una posizione molto più offensiva e dobbiamo essere chiari davanti al WTO contro i Paesi che non rispettano l'accordo Trips e che non rispettano la protezione di questi prodotti. La protezione attuale delle indicazioni geografiche non é sufficiente e abbiamo bisogno di chiedere ai membri del WTO l'estensione della protezione dell'art. 23 a tutti i prodotti, per riuscire in futuro ad avere un registro multilaterale vincolante aperto a tutti i prodotti IG.

R.I.
Presidente Politi, la signora Olivas diceva che la domanda di protezione partirà, come è successo anche in Italia, dai produttori; inoltre si diceva anche che ormai abbiamo una produzione orientata verso quelli che sono i prodotti a denominazione, DOC, DOP, IGP, STG e così via. Questi però non rappresentano tutta l'agricoltura, quindi dobbiamo pensare a vivere con due sistemi di agricoltura?

Giuseppe Politi - Presidente nazionale Cia
La premessa è che l'agricoltura italiana è una agricoltura forte anche se con tanti problemi, ed è forte perché è molto diversificata, c'è il prodotto di nicchia, c'è una fetta importantissima di prodotti a denominazione di origine, ci sono le grandi produzioni tipiche italiane e, tutte insieme, danno un risultato altamente positivo; quindi una Organizzazione professionale come la nostra deve porsi il problema di valorizzare tutta l'agricoltura.
Quando si parla di denominazione di origine, bisogna dire che siamo i primi in Europa perché abbiamo 150 marchi, però la parte di produzione lorda vendibile rappresentata da queste produzioni è, oggi, ancora troppo bassa.
In pratica ci sono tanti marchi, il cui valore si aggira attorno, complessivamente, al 10% della produzione lorda vendibile, ma se andiamo a vedere poi all'interno di tutte queste Dop ed Igp vediamo che l'80% di questo valore è rappresentato da pochi marchi storici; quindi tanta strada abbiamo ancora da fare.
C'è poi un problema legato complessivamente ai risultati dell'agricoltura, cioè anche queste produzioni hanno il problema del reddito per le aziende agricole perché anche queste aziende hanno registrato redditi abbastanza bassi nel 2004 e quindi dobbiamo mettere in essere tutte quelle iniziative capaci di tutelare, come veniva detto, questi prodotti.
C'è l'esigenza della valorizzazione di questi prodotti e su questo voglio anche essere critico. Noi in Italia spendiamo molte risorse di carattere finanziario per promuovere l'agricoltura italiana: lo fanno le organizzazioni professionali, le associazioni di prodotto, le regioni, le Camere di commercio, il Ministero, l'Ice, insomma abbiamo diversi soggetti che concorrono nel fare promozione, ma, fermo restando le autonomie, dobbiamo mettere in piedi un progetto serio per decidere cosa promuovere e dove promuovere, in modo da unire queste risorse di carattere finanziario, mettere in campo delle strategie adeguate per aggredire il mercato, oltre a porci seriamente il problema di difendere le Dop, Igp e le altre nostre produzioni di qualità, visto che anche in Italia siamo aggrediti da prodotti che vengono da altri Paesi e quindi non riusciamo neanche a tutelare il mercato nazionale.
Dobbiamo inoltre stare attenti ai comportamenti delle stesse organizzazioni professionali – e qui voglio anche vivacizzare polemizzando un po': in una recente assemblea, una grande organizzazione professionale agricola, la Coldiretti, su questo tema ha proposto il "marchio dei marchi" cioè che il Made-in-Italy deve essere il marchio che copre tutti i marchi prodotti in Italia. Ma questo che cosa vuol dire? Questo annullerebbe tutto quello di cui stiamo discutendo, annullerebbe le filiere, la differenziazione, la forza dell'agricoltura italiana che si presenta con mille prodotti, con mille sapori, con mille tradizioni; proporre che tutto ciò che viene fatto in Italia abbia il marchio Made-in-Italy vorrebbe dire che tutto quello di cui stiamo qui discutendo è inutile.

R.I.
Volevo ora sentire il professor Anania al quale rivolgo due domande: la prima in relazione al problema di strategia di cui parlava prima il presidente Politi, che forse cioè c'è dispersione tra i vari livelli di intervento dove ognuno fa la propria corsa; la seconda che forse c'è anche un problema di intendimenti, cioè vogliamo il mercato protetto quando dobbiamo difendere i nostri prodotti ma nello stesso tempo vogliamo il mercato aperto e la concorrenza perché ci permettono di affermare le nostre esportazioni: non è una contraddizione?

Giovanni ANANIA – Dipartimento di Economia e Statistica. Università degli studi della Calabria.
Non è una contraddizione. Prima di rispondere però voglio aggiungere qualcosa a quello che prima veniva detto in merito al negoziato Wto in corso. Vorrei raccontare brevemente come siamo arrivati alla situazione attuale del negoziato e dire cosa, secondo me, potrebbe succedere.
Il negoziato sulle denominazioni di origine ha una sede naturale che è quella del "Trips", cioè l'Accordo sulle questioni legate al commercio internazionale dei diritti di proprietà intellettuale. Nel 2001 c'è stata una decisione, che tutti i Paesi hanno sottoscritto, che è di negoziare la creazione di un registro per i vini ed i prodotti alcolici; quindi quando sento dire che l'articolo 23 dell'accordo Trips "basta e avanza" per tutelare le denominazioni, devo rilevare che c'è già una contraddizione: tutti i Paesi hanno già deciso che non è così e di negoziare l'introduzione di un registro per i vini e gli alcolici. D'altro canto, in quella sede, è vero che nulla si è deciso, invece, sulla negoziazione dell'estensione ai prodotti agro-alimentari diversi dal vino e dagli alcolici di questo registro; per questi c'è soltanto un impegno a discuterne.
Ora, è evidente che nel momento in cui si decide di negoziare, l'accordo conclusivo al termine del negoziato dovrà comprendere anche un accordo sul registro dei vini e degli alcolici, altrimenti non si chiude. Viceversa, per i prodotti agro-alimentari diversi da vini ed alcolici, quanto deciso sin qui vuol dire che per questi non c'è alcun impegno sul fatto che alla fine del round qualcosa bisognerà decidere.
Per quanto riguarda la negoziazione per l'introduzione del registro dei vini e degli alcolici, partita nel 2001, ad oggi nulla si è deciso; siamo allo stallo completo, frutto del contrapporsi di due posizioni antitetiche.
Alcuni Paesi sostengono che il riconoscimento debba avvenire su basa volontaria; essi dicono: "va bene, creiamo il registro delle denominazioni e i Paesi che vogliono rispettino quelle denominazioni, mentre i Paesi che non vogliono riconoscerle possono farlo, ma non avranno il riconoscimento delle loro denominazioni". La posizione degli altri Paesi, compresa l'Unione Europea è, invece, che il riconoscimento debba essere obbligatorio, cioè che tutti i paesi membri del Wto debbano riconoscere la tutela delle denominazioni comprese nel registro. Su questo bisogna trovare un accordo tra tutti i paesi aderenti al WTO, altrimenti non si chiude il round.
Sull'agricoltura, cioè sull'estensione ai prodotti agro-alimentari del riconoscimento che verrà deciso per le denominazioni di vini ed alcolici, ci sono posizioni contrapposte e fermissime: ci sono gruppi di Paesi – e mi pare che sia evidente anche dagli interventi che abbiamo sentito – che, almeno per ora, non hanno alcuna intenzione di consentire nemmeno l'apertura di un negoziato.
Subito prima della Conferenza di Cancun, stiamo quindi parlando dell'agosto del 2003, è successo qualcosa che ha meravigliato molte persone che, come me, seguono il negoziato: l'Unione Europea ha messo sul tavolo del negoziato agricolo (non su quello Trips, quindi) la richiesta della tutela di 41 denominazioni specifiche.
La meraviglia deriva dal fatto che quando in un negoziato in corso in cui si sta cercando di far passare regole generali per la tutela di tutte le denominazioni, si chiede su un altro tavolo la tutela di 41 denominazioni specifiche, quest'ultima richiesta naturalmente indebolisce fortemente la richiesta di tutela più generale fatta dall'altra parte: è incoerente chiedere la difesa di 41 denominazioni quando dall'altra parte si sta chiedendo di difenderle tutte….
A Cancun, come sappiamo, si è registrato un fallimento del negoziato, ma una cosa è stata subito chiara, e cioè che sulle denominazioni di origine nessuno degli altri Paesi ci capiva alcunché. In un quadro in cui si parlava dell'importanza di porre al centro del negoziato lo sviluppo economico dei paesi più poveri, l'accesso agli alimenti e la riduzione della povertà, quando le delegazioni dei Paesi dell'Unione Europea andavano in giro dicendo agli altri Paesi di voler inserire nel testo dell'accordo della ministeriale anche la questione della tutela delle denominazioni di origine, si trovavano di fronte negoziatori che non capivano di che cosa stessero parlando e di perché ci tenessero tanto a questa questione.
Le cose, da allora ad oggi, non sono migliorate molto. Da un lato c'è un evidente conflitto di interessi: è ovvio che alcuni Paesi hanno interessi economici rilevanti a non far passare una regolamentazione sulle denominazioni di origine; ma, sicuramente, c'è anche un problema di comprendere cosa voglia dire per l'Unione Europea denominazione di origine, in termini di sviluppo locale, in termini di tutela e valorizzazione delle specificità di un territorio e della sua storia. L'Australia, recentemente, ha sostenuto che la richiesta dell'Unione Europea per la tutela delle denominazioni di origine sia un modo mascherato per legittimare delle barriere non tariffarie e difendere così il mercato interno dell'Unione Europea dalle importazioni; certamente in un negoziato si può dire di tutto, ma se queste sono le posizioni messe sul tavolo, credo che il problema non sia solo di non essere d'accordo, ma anche di non riuscire a capirsi su quello di cui si sta discutendo.
Che cosa è successo da allora? Subito dopo Cancun, nel novembre del 2003, l'Unione Europea ha diffuso un documento generale di valutazione su che cosa stava succedendo nel negoziato e sulla sua strategia per il futuro. In questo documento l'Unione Europea dichiara che sul negoziato Trips, sulle denominazioni di origine, è disposta a fare un passo indietro, cioè è disposta a togliere la questione dal tavolo negoziale; la mia opinione è che questa mossa sia stata prematura. Il Commissario all'agricoltura Fischler è stato a Roma la settimana successiva per una riunione alla FAO, ha incontrato il Ministro Alemanno, ma nella conferenza stampa che è seguita all'incontro di questa cosa non si è detto nulla.
Arriviamo così al 2004. Nell'agosto del 2004 è stato raggiunto un accordo che ha fatto ripartire il negoziato agricolo; l'Unione Europea fa dei passi indietro, responsabili e rilevanti, accettando di cancellare nel giro di qualche anno i sussidi all'esportazione. Sulle denominazioni di origine invece non riusciamo a portare a casa nulla: le denominazioni di origine sono in un elenco di questioni sulle quali si conviene che non c'è alcun accordo, e si conferma che non c'è alcun impegno a negoziare su questi temi nell'ambito del round in corso.
Quindi, al punto in cui siamo oggi, dobbiamo rilevare che non c'è alcun segnale di disponibilità ad accettare il fatto che l'accordo finale di questo round contenga un accordo sulle denominazioni di origine. Però, ed è una novità importante, negli ultimi mesi, e cioè dall'insediamento del nuovo Commissario all'agricoltura, e, probabilmente, grazie a più incisive pressioni anche da parte dell'Italia, la questione delle denominazioni di origine è ridiventato un tema esplicito nelle posizioni negoziali assunte dall'Unione Europea; il Commissario Fischer-Boel, a Mombasa prima e a Parigi, negli ultimi mesi, ha esplicitamente detto che questo tema è una componente importante dell'agenda dell'Unione Europea nel negoziato agricolo.
Nonostante questo, però, e nonostante la posizione presa dalla Svizzera che dice che l'accordo sull'agricoltura deve contenere un accordo sulle denominazioni di origine, la mia valutazione è pessimista - ma potrei benissimo sbagliarmi, anzi sarei molto contento se così fosse - sulla possibilità che l'Unione Europea possa riuscire a portare a casa sulle denominazioni di origine nel negoziato WTO quello che vorremmo.
Questo però non vuol dire che non dobbiamo tenere una posizione negoziale forte ed alzare il tiro, puntando i piedi per cercare di ottenere tutto ciò che è possibile. Non bisogna però dimenticare che all'interno dell'Unione Europea non sono molti i Paesi che ritengono che le denominazioni di origine debbano essere una priorità negoziale; quindi, per fare in modo che le denominazioni di origine nel negoziato rimangano un tema prioritario per l'Unione Europea, l'Italia dovrà continuare ad esercitare una pressione, quella pressione che negli ultimi tempi sembra esercitare in maniera efficace. Quindi, lavorare molto nel WTO e lavorare molto tutti: anche iniziative come questa di oggi possono essere utili, bisognerebbe moltiplicarle per cercare di capirsi di più con gli altri Paesi.
E' ovvio che l'Unione Europea non potrà mai chiedere che un "marchio registrato" in un altro Paese perda di validità, ed in effetti non lo ha mai chiesto, così come è ovvio che l'Unione Europea sa bene che alcune denominazioni sono veramente diventate in alcuni paesi denominazioni "generiche": la mia valutazione, ad esempio, è che quando negli Stati Uniti si dice che il termine "parmesan" ha per loro perso il legame con un territorio ed è un termine che indica soltanto un formaggio duro da grattugiare, credo che lo dicano sinceramente. In tutti questi casi è ovvio che si tratta di trovare un accordo che tenga conto anche di queste cose, tutelando i nostri interessi messi a rischio, ma un accordo è sempre meglio di nessun accordo.
Nel negoziato WTO c'è da vedere se riusciamo a portare a casa qualcosa: l'Unione Europea alla fine del negoziato dovrà sicuramente cedere qualche altra cosa sulle questioni agricole, quindi qualcosa potremo anche chiedere ed ottenere dagli altri partners; la conclusione di un negoziato ha sempre luogo con qualche passo indietro su qualche tema e qualche risultato su altri, si tratta di vedere se le denominazioni di origine saranno tra quelli su cui cercheremo di ottenere risultati.
Questo per quanto riguarda il negoziato; vorrei ora rispondere alle sue domande. Certamente nel negoziato WTO dobbiamo fare di più e meglio, ma non dobbiamo aspettare la conclusione del negoziato per ragionare sulle possibilità di espansione sui mercati internazionali delle nostre produzioni a denominazione di origine. In questo senso, a prescindere dall'esito del negoziato, c'è molto da fare, e qualcosa si sta già facendo.
La Commissione, ad esempio, sta lavorando molto sugli accordi bilaterali, per cercare di portare a casa accordi che tutelino, su alcuni mercati specifici, alcune denominazioni; questo, naturalmente, non vale per tutti i mercati e non protegge tutti i prodotti: otteniamo però in questo modo qualcosa su qualche mercato.
Mi sembra molto interessante quello che il dott. Longo ci diceva prima sull'olio d'oliva; è un strada che, naturalmente, conviene seguire cercando di trarne tutti i vantaggi possibili.
La strada dei marchi è una strada che sarebbe efficace, ma che è anche molto complicata e molto costosa (è costosa, come abbiamo sentito, per il parmigiano reggiano, immaginiamoci per le altre denominazioni); è difficile, infatti, non solo riuscire a farli introdurre, ma soprattutto seguire tutte le dispute con coloro che non rispettano il marchio; a mio avviso, non è questa una strategia che può servire alle denominazioni nel loro insieme: costa troppo, sarebbe efficace ma, di fatto, è inapplicabile.
Una delle cose che, invece, si può fare, è rafforzare le attività di promozione: noi dobbiamo lavorare con i nostri alleati in questi Paesi e i nostri primi alleati sono i consumatori. Ci sono segmenti di consumatori che vogliono e cercano la qualità, esattamente come la vogliono una buona parte di consumatori europei, e che sono disposti a pagarla; noi, quindi, dobbiamo comunicare di più e meglio con questi consumatori, spiegando loro che cosa vogliono dire questi prodotti, aiutandoli a leggere le etichette, cercando, quindi, di far crescere la loro informazione e l'immagine che presso di loro hanno i prodotti italiani a denominazione di origine.
C'è poi tutto un fronte interno di lavoro, che riguarda la condivisione delle strategie; certamente sulle questioni delle denominazioni si tratta di realizzare efficaci azioni di concertazione - una parola che non ci deve spaventare - con l'obiettivo di definire strategie che possano essere realmente condivise lungo tutta la filiera. Bisogna risolvere i conflitti di interessi che ci sono, ed i conflitti di interessi si risolvono mettendosi attorno ad un tavolo e riuscendo a trovare delle cose da fare da parte di ciascuno: ognuno fa un passetto indietro, ma tutti insieme comunque si guadagna rispetto alla situazione di partenza (cioè si trova vantaggioso aderire all'accordo, piuttosto che rimanere nella situazione di partenza).
Un'altra questione rilevante è quella della coerenza: noi parliamo di qualità, siamo tutti convinti che la qualità e la qualità certificata siano l'asse portante delle strategie di sviluppo dell'agroalimentare italiano, che se noi vinciamo su quello trainiamo all'estero anche i prodotti italiani che non sono certificati, e, quindi, promuoviamo tutto l'agro-alimentare italiano, …ma, quando passiamo poi concretamente a decidere sulle politiche, non sempre prendiamo decisioni coerenti con quello che ci sarebbe da fare per sostenere la qualità!
Voglio fare un paio di esempi: io per primo ho sostenuto che la Politica Agricola Comune era una politica decisa a Bruxelles e che non era rispettosa dell'esigenza di avere politiche differenziate, in quanto differenziate sono le agricolture europee e le loro domande di interventi. Ora, finalmente, con la riforma Fischler, abbiamo avuto una politica agricola comune che dà maggiori spazi all'utilizzazione di risorse finanziarie non trascurabili per interventi definiti a livello nazionale (entro limiti definiti a Bruxelles) per modellare le politiche alle esigenze nazionali specifiche. Facciamo degli esempi: abbiamo dovuto prendere una decisione a livello nazionale sull'art. 69, cioè sull'utilizzazione di una fetta dell'aiuto che potenzialmente poteva andare al pagamento aziendale unico, per utilizzarla per incentivare e pagare la qualità; la decisione che abbiamo preso, tutti assieme, almeno per il primo anno, è stata quella di "spalmare" queste risorse su tutto e tutti, indipendentemente dalla qualità delle produzioni. Questa scelta è coerente con una strategia che voglia privilegiare la qualità, che pone la qualità al centro delle strategie di consolidamento del comparto agro-alimentare italiano?
Altro esempio, l'olio di oliva. Stiamo per decidere come applicare la riforma delle politiche comunitarie per questo settore e ci ritroveremo con una notevole quantità di risorse a disposizione della "filiera": potremmo utilizzarle per interventi sulle aziende, per interventi di promozione commerciale, per interventi di concentrazione dell'offerta… la quantità di risorse disponibili può essere 4 o 5 volte quelle che avevamo fino ad oggi, 70/80 milioni di € all'anno. Ma cosa stiamo facendo per metterci in condizioni di utilizzare queste risorse in maniera efficace? Un ultimo punto. Abbiamo dopo la riforma Fischler una misura nuova nello sviluppo rurale, una misura ad hoc per interventi a sostegno dei prodotti a qualità certificata, ma finora le Regioni non hanno deciso di modificare il loro Piani di sviluppo regionali per introdurre questa misura, ed io credo che se lasciassimo l'iniziativa soltanto alle Regioni, nella nuova programmazione, di decidere cosa fare, rischieremmo di vedere non utilizzata questa misura. Dobbiamo allora prenderci tutti una parte di responsabilità a livello nazionale - le organizzazioni agricole per prime - e sederci attorno ad un tavolo con le Regioni per vedere come utilizzare questi nuovi strumenti e le risorse a disposizione proprio per aiutare il rafforzamento delle produzioni a qualità certificata. Noi diamo, a volte, troppo per scontato che la qualità in Italia esista, che esista in grandi quantità e che la "facciamo" facilmente; non è così, c'è tanto lavoro da fare per migliorare la qualità e farne di più. Questo naturalmente vuol dire operare con coerenza, e vuol dire anche che la strategia vincente non è quella di difenderci dalla concorrenza con le tariffe; la strategia è quella che è stata indicata qui, cioè competere con regole condivise, che siano uguali per tutti, e che garantiscano il diritto di ciascuno di valorizzare la sua storia, i suoi territori e i suoi prodotti.

R.I.
Dottor Ambrosio, il professor Anania diceva di essere un po' pessimista; anche lei si sente pessimista?

Giuseppe AMBROSIO – Capo Dipartimento Qualità dei prodotti agroalimentari e dei servizi. Ministero delle Politiche Agricole e Forestali
No, non siamo pessimisti, ma realisti e esigiamo da tutti profondo rispetto. L'ultimo intervenuto ha ricordato che abbiamo tante tradizioni e una storia profonda, così come ce l'hanno gli amici australiani, gli americani, ognuno deve far tesoro della propria storia. Sappiamo tutti che recentemente il Governo italiano, rispettando la storia di un Paese africano, ha restituito l'obelisco di Axun.
Noi non siamo i detentori solo del 40% del patrimonio culturale mondiale, siamo anche il Paese che più di tutti fornisce i musei di tutti i Paesi del mondo: il Louvre, il British Museum e il Metropolitan Museum di New York sono pieni di tesori italiani.
Ogni Paese deve avere la propria storia, e portarla avanti anche a livello economico, perché credo che anche questo sia realizzare il mercato globale; non possiamo certamente pretendere, come ha detto la nostra amica australiana, quasi la globalizzazione delle opere dell'ingegno. Chiediamo ai detentori di importanti marchi informatici se sono d'accordo che a livello mondiale possa essere utilizzato liberamente il loro marchio. Poniamo la stessa domanda alle grandi multinazionali del cinema, che giustamente anche in ambito globale chiedono il rispetto delle opere dell'ingegno cinematografico. Per questo i nostri amici statunitensi reclamano la difesa sia dell'informatica che delle opere cinematografiche e battono giustamente i pugni sul tavolo. Ebbene noi i pugni li vogliamo battere in tutte le sedi perché non è assolutamente accettabile che in giro per il mondo si produca "parmesan" con la bandiera italiana da parte di produttori non italiani.
Quando io, per la prima volta nel 2000 mi sono recato alla riunione del Codex Alimentari a Wellington sono andato in un supermercato di fronte all'albergo in cui si teneva la riunione e, spendendo pochissimo, ho comperato due prodotti, uno australiano ed uno neozelandese, tutti e due con la denominazione "parmesan". Sull'etichetta del prodotto australiano che aveva una bandierina italiana sulla confezione era scritto " se comperi questo prodotto trasformi il termine "italian" in "italiano" mentre nell'altro, c'era scritto che nel 1878 l'emigrante, Natale Italiano, si sposta da Parma in Nuova Zelanda per proseguire la tradizione e la produzione di formaggio; all'anagrafe di Parma abbiamo fatto una ricerca e non è mai stato registrato alcuno con il nome Natale, che è quindi un nome fittizio.
Allora, se pure si vuole assumere, e noi lo contestiamo, che "parmesan" è diventato un nome generico mentre è la traduzione francofona, anglofona e tedesca del termine "parmigiano", in quanto località geografica provincia di Parma e città di Parma, se pure lo si vuole assumere non c'è alcun motivo di richiamare l'Italia su questi prodotti, non c'è alcun motivo di mettere in dubbio la buona fede del consumatore inducendolo a prendere prodotti italiani.
Con un pizzico di civetteria possiamo dire che nel campo dell'agroalimentare il concetto dell'Italia evoca il concetto di ciò che è bello, di ciò che è buono, di ciò che è accattivante. Anche nel negoziato multilaterale, chiediamo, come è stato anche detto dal nostro Ministro Alemanno, il riconoscimento della prima lista su cui i Paesi dell'Europa si sono accordati e di cui chiedono agli altri Paesi il rispetto, perché quella lista è il frutto del territorio europeo, delle tradizioni europee, del vissuto e del fatto che da tanto tempo quelle denominazioni vengono prodotte in quel determinato modo.
Parlare di globalizzazione dell'ingegno è giusto perché una DOP, una IGP o una denominazione protetta, un vino, è comunque un' opera dell'ingegno.
Noi italiani non ci sogneremmo mai di denominare in Italia un vino, vino "Napa", non ne abbiamo bisogno; non ci sogneremmo mai di chiamare un olio, olio del Queensland; non ci sogneremmo mai di chiamare un prosciutto, prosciutto di Città del Capo producendolo n Italia. Noi abbiamo 3.500 prodotti tipici e tradizionali di cui andiamo fieri e che vogliamo portare avanti: E' vero che quelli protetti rappresenteranno soltanto il 10% della PLV, ma, a partire da questo, affermiamo la qualità del sistema agro-alimentare italiano.
C'è una profonda discussione tra le varie associazioni ed anche con il mondo industriale sulla questione del Made in Italy; in ogni caso il sistema delle denominazioni registrate è la punta di diamante e la punta dell'iceberg di un sistema complesso, che avrà le sue contraddizioni, ma è pur sempre un sistema basato sulla qualità.
Vorrei terminare con una annotazione. Sono arrivato alle 11,32 perché provenivo da Trieste. Ieri a Udine abbiamo incontrato i produttori friulani di Tocai. Le sentenze vanno rispettate, e la sentenza della Corte di Giustizia del 12 maggio, cioè di qualche giorno fa, prevede che - anche se non la condividiamo perché sono 300 anni che nel Friuli si produce Tocai - a seguito di un accordo del 1993, dobbiamo cedere, a partire dal 2007 agli ungheresi la denominazione. Ne prendiamo atto; se le iniziative diplomatiche che il Ministro Alemanno ha in corso per cercare di convincere gli ungheresi che si tratta di due prodotti diversi, che tutti e due sono basati sul territorio - ungherese è la città di Tokai, e una zona friulana che si chiama Tocai, e che sono due vini assolutamente diversi, l'ungherese da dessert, il nostro bianco secco - se le iniziative diplomatiche dovessero andare male dicevo, abbiamo già attivato ed ipotizzato la strada per cambiare nome e promuovere prima del 2007 il vino, perché non temiamo la sfida in quanto il Tocai friulano chiamato in un modo diverso è comunque un prodotto che avrà il suo mercato in quanto è un prodotto eccellente. Certo, e qui mi rivolgo ai colleghi della Commissione, è inquietante, veramente inquietante che su un altro tavolo agli australiani si consente o si vorrebbe consentire di utilizzare la denominazione Tocai, magari con il presupposto che friulani sono andati in Australia nel 1800: è veramente inquietante e se mi consentite risibile.
Sono le contraddizioni dell'Europa sulle quali vogliamo continuare a batterci perché, ad un produttore friulano non ho potuto che rispondere che le leggi e i regolamenti vanno rispettati. Diceva ieri che da 300 anni la sua famiglia produce questo prodotto e vorrebbe spiegazioni sul perché non potrà più produrlo mentre in Australia lo possono produrre con quel nome e magari potranno anche portarlo in Italia.
E' una bella sfida, una sfida accattivante alla quale il Governo italiano e tutti i produttori sono pronti perché siamo convinti che nell'ambito del WTO, nonostante tutte le spinte, ci sia un margine perché le denominazioni europee abbiano il posto che compete loro, perché l'Europa non vuole ergere barriere ma dare al consumatore, che è l'unico giudice della bontà e della qualità dei prodotti, la possibilità di scegliere e siamo certi che i consumatori mondiali, anche quelli dei Paesi terzi, sceglieranno i prodotti europei perché sono i migliori e tra questi, consentitemi di dirlo, quelli italiani sono eccellenti ed i migliori di tutti.